In un periodo in cui dobbiamo convivere con l’incertezza, provare a farcela amica e cercare di trovarle uno spazio nella nostra quotidianità, un fatto appare chiaro: la data di uscita dalla crisi sarà molto diversa nei vari Paesi del mondo. Di più: sarà diversa pure all’interno di uno stesso Paese, probabilmente dentro a una stessa regione. Di conseguenza, la lontananza temporale tra queste date di ritorno a una qualche forma di normalità, farà sì che lo sport – come peraltro ogni altra attività – debba prevedere un calendario di ripresa su base nazionale, prima che su base internazionale.
Sport di squadra e individuali
In alcuni casi la questione è piuttosto semplice.
Prendiamo il calcio: pur dovendo sottostare a regole che fanno capo a organismi sovranazionali, le singole leghe mantengono una certa autonomia in merito ai calendari e alle decisioni interne. Dunque il campionato italiano potrebbe (potrà) riprendere prima di quello spagnolo, francese o americano. Mentre persino oggi, quando l’Europa sta toccando il picco dell’emergenza, ci sono Paesi nemmeno troppo esotici in cui a calcio si gioca ancora (vedi Bielorussia). Lo stesso vale per tutte quelle discipline che hanno nell’anima nazionale una componente importante, o meglio dire preponderante, del loro business, dunque per esempio basket, volley, rugby. Certo, il calcio ha anche le Coppe, ha il Campionato Europeo, avrebbe avuto L’Olimpiade.
Ma se dovesse riprendere (e terminare) il campionato tricolore, una buona parte dei problemi economici delle società italiane e del relativo indotto sarebbe gradualmente risolta, o comunque le difficoltà diventerebbero meno devastanti. Senza contare che gli stipendi ai giocatori, a parte casi eccezionali e qualche taglio, arrivano lo stesso ogni fine mese.
Tennis, il Tour in 30 Paesi
Ci sono sport, invece, che sviluppano la loro stagione prendendo come palcoscenico il mondo intero, non un singolo stato. Almeno quando di parla di alto livello. In questo senso, il re è senza dubbio il tennis, disciplina globale per vocazione: il calendario Atp – quello maschile dei professionisti – si dipana in 30 Paesi e in ogni continente. Pressoché ogni mese si cambia superficie, clima, latitudine.
E i giocatori si spostano in aereo ogni settimana da un lato all’altro del pianeta. Proprio questo fattore che in tempo di pace è un vanto e un orgoglio, in tempo di guerra (invisibile, ma è guerra) mette la racchetta tra gli sport più a rischio. I giocatori non hanno stipendi, guadagnano solo se giocano e se vincono, ma di giocare non se ne parlerà per parecchio tempo, per quanto concerne i tornei dei pro. Ufficialmente fino a metà luglio, verosimilmente molto più in là nel tempo. Qualcuno, sono sempre di più, dice fino a inizio 2021.
Una rete (di salvezza) nazionale
Cosa accade in questo periodo, al tennis come al golf, come a tutti gli sport globalizzati? Accade che i tornei vengono cancellati, che gli organizzatori e le federazioni perdono soldi, che i circoli rischiano di non riaprire o di farlo con parecchi debiti sul groppone. E accade soprattutto che tanti giocatori, maestri e lavoratori del settore non sanno come arrivare a fine mese. Senza contare la paura delle macerie che troveranno al rientro. Però si ripartirà, il tunnel sarà lungo ma non resterà senza una fine.
E in quel momento i club italiani avranno piano piano la possibilità di riaprire i campi, di far tornare ad allenare i giocatori. Mentre nel frattempo il circuito pro, ossia quello Atp, Wta e Itf, sarà inesorabilmente fermo. Nella sua drammaticità, questo momento spinge dunque a una riflessione che in realtà non è affatto nuova, ma che oggi trova un volano giustificato dall’emergenza sanitaria globale. Perché il tennis non prova, proprio adesso, a dotarsi di una sua rete nazionale di eventi, che sia il più possibile indipendente da ciò che accade al di fuori del Paese? Sarebbe un modo per reagire, per ritrovare motivazioni, e sarebbe una bella iniezione di fiducia.
La struttura dello sport in questione prevede i quattro tornei del Grande Slam, poi a ruota i circuiti Atp e Wta, Challenger e Itf. Che sono tutti sotto il controllo degli organismi sovranazionali, dove una decisione dei rispettivi governi, come quelle che sono state prese in questi giorni, non può essere violata o messa in discussione. Poi però c’è tutta una struttura interna, fatta di tornei Open, di campionati a squadre e di eventi gestiti su base locale o nazionale dalla Fit, la Federazione italiana. In questo 2020 così particolare, proprio uno sviluppo diverso e totalmente ripensato – in senso migliorativo – di tutto ciò che è nazionale, potrebbe diventare da un lato l’emblema della rinascita del nostro piccolo mondo, dall’altra un’ancora di salvezza per tante strutture e per tanti giocatori.
Open al posto dei Challenger
Facciamo delle ipotesi concrete. L’Italia riapre, con cautela ma riapre. I professionisti devono ricominciare ad allenarsi e magari pure a fare qualche partita seria. Ché come dicono i tecnici, allenamento e match son due cose ben diverse. Ma il circuito è ancora fermo perché gli altri Paesi sono sempre impantanati nella pandemia. Così ci sono quei circoli che normalmente organizzano un Challenger o un Itf (eventi ormai cancellati) che decidono di mandare in scena comunque un torneo.
Si tratta però di un circuito di Open nazionali, ai quali sono invitati tutti i migliori italiani, o meglio tutti i migliori italiani che sono in Italia in quel momento. Potrebbero giocare Sinner, Caruso, Travaglia, Cecchinato, Mager, Sonego, Fabbiano, Bolelli, Musetti. O persino due top players come Matteo Berrettini e Fabio Fognini. Perché dovrebbero accettare di giocare senza ingaggi o montepremi importanti? Perché sarebbe sempre meglio che stare fermi, e sarebbe un aiuto concreto, forse decisivo, per quel movimento di cui loro rappresentano il vertice. Certo gli sponsor, di fronte a nomi come questi, non sarebbero così dispiaciuti di non mandare in scena un Challenger. E la gente, che in un Challenger quasi sempre entra gratis, sarebbe forse disposta addirittura a pagare un biglietto (magari non troppo caro), soprattutto se il biglietto è pensato non tanto per comporre il montepremi destinato ai giocatori, quanto per dare fiato al circolo o – meglio – all’intero movimento.
Per loro, per i protagonisti e in particolare per i top 100 Atp, il premio vero sarebbe rimettere piede in campo, affrontare un match ufficiale. Tanto più in questo momento, in cui il tennis italiano ha pochi eguali al mondo per qualità e quantità dei protagonisti. Per l’occasione si potrebbe pensare a tabelloni tradizionali, a 32 o a 64, per consentire ai pro di giocare più incontri e per consentire al pubblico di ammirarli più volte. Sarebbe qualcosa a metà strada tra un torneo e un’esibizione, ma sarebbe tanta la voglia di tennis, in ognuna delle parti in causa, che difficilmente si tratterebbe di un flop.
Campionati per regioni (o per città)
È piuttosto semplice pensare a questa ‘conversione’ se parliamo di tornei individuali, più difficile pensarla per i campionati a squadre, perché lì ci sono tesseramenti e impegni ben precisi che affondano le radici negli anni scorsi e in contratti regolarmente stipulati. Anche in quel caso però, forse, si potrebbe fare un’eccezione. Del resto, quando si vivono tempi eccezionali, sono necessarie scelte fuori dal comune.
Allora perché non pensare a un circuito a squadre itinerante da giocare in estate, sempre con i migliori d’Italia suddivisi equamente tra vari circoli, in modo che oltre allo spettacolo ci possa pure essere equilibrio? Oppure – meglio – un circuito dove le squadre sono le regioni, o persino le città. Unica necessità: che non ci siano pretese o recriminazioni, da parte dei giocatori e da parte dei circoli di riferimento. Perché sarebbe semplicemente una festa, utile ma pur sempre una festa da celebrare come tale.
Una finestra nel circuito
Cosa resterebbe, di una minirivoluzione come questa? Intanto un movimento che ha l’intelligenza di cercare soluzioni. Un ‘movimento in movimento’, e non semplicemente in attesa degli eventi. Poi, resterebbe un precedente utile a capire: se dovesse funzionare, a maggior ragione in tempi nei quali il tennis italiano è così in salute, ripetere questi tornei anche in tempo di ‘pace’ diventerebbe quasi logico e senz’altro più semplice.
Sarebbe più semplice mettere assieme sponsor, organizzatori e giocatori. E magari questo potrebbe spingere altri Paesi a fare altrettanto e dunque potrebbe spingere i governi del tennis a una decisione che aiuti in questa direzione: trovare una finestra di qualche settimana per dare voce all’attività nazionale sarebbe un bene per tutti. E non è impossibile, considerato che nel Tour, tanto in quello maschile quanto in quello femminile, ci sono diversi eventi che restano vivi a fatica e strategicamente hanno un senso davvero limitato, per usare una frase gentile. Valorizzare in qualche modo l’attività interna a uno stato coinvolgendo davvero tutti i migliori significherebbe dare uno slancio al tennis senza precedenti.
In Spagna e in Francia (qui l’articolo) lo stanno già pensando in maniera molto concreta. Nello Stivale, si porterebbe il tennis di vertice vicino agli italiani, a tutti gli italiani, senza l’obbligo di affrontare trasferte dispendiose per poter vivere sensazioni da circuito Atp. Poi Roma resterà sempre Roma, Wimbledon resterà sempre Wimbledon. Niente potrà competere con quel tipo di emozione. Ma se a Recanati, a Parma o a Todi dovessimo vedere una finale tra Berrettini e Sinner, c’è da scommettere che il pubblico e gli sponsor di quei tornei si sentirebbero ancora più vicini ai ‘loro’ campioni. E dunque ancora più parte attiva di un movimento che lotta e non si arrende. Nemmeno al coronavirus.