In pochi mesi il mondo è cambiato, ma c’è una parte di mondo che ancora non se n’è accorta. O, peggio, che finge di non accorgersene. Mentre tutte le certezze delle nostre vite, dalla salute all’economia passando per la socialità, sono messe in discussione, non è pensabile avanzare richieste che appartengono all’esistenza pre-coronavirus. Perché il rischio concreto è quello di apparire totalmente fuori dal tempo, slegati dalla realtà: in un’epoca come questa, una colpa grave. Mentre i vari governi del tennis e gli organizzatori dei tornei cercavano di trovare le soluzioni migliori in vista della ripartenza del circuito, da più parti abbiamo sentito voci seccate in merito al fatto di dover rinunciare al fisioterapista personale, alla presenza del pubblico sugli spalti o, in generale, a qualcosa che per anni e anni è sembrato talmente naturale da diventare – per qualcuno – irrinunciabile. Il coronavirus ci riporta invece all’essenziale: per giocare a tennis servono i giocatori, un campo e un arbitro. Punto. Del resto – di tutto il resto – si può tranquillamente fare a meno.
Quali protagonisti?
Il tennis non rinuncerà completamente, a questo 2020 maledetto, contrariamente a quanto pensavano (auspicavano?) alcuni. Dal mese di agosto si tornerà in campo: si giocheranno due Slam, gli Internazionali BNL d’Italia di Roma, il Wta di Palermo e persino i Challenger e gli Itf. Quelli che spesso sono dimenticati dalla stampa e dal pubblico, ma che rappresentano le fondamenta del movimento, i tornei da cui partono tutti i campioni di domani. Senza eccezioni. A Barletta ricordano ancora il trionfo di Rafael Nadal, a Brest hanno ben impresso l’allora ribelle Roger Federer che alza la coppa, a Sanremo non dimenticheranno mai il torneo del 2005 vinto da Novak Djokovic.
Il tennis salverà mezza stagione, dunque, ma non si sa bene con quali protagonisti, visto che in molti hanno minacciato di boicottare la trasferta newyorchese, non si capisce bene se impauriti dal virus o dalle restrizioni imposte dalla Usta, peraltro molto ammorbidite rispetto a quelle iniziali.
In una bolla di irrealtà
La cosa certa è che il circuito che uscirà dalla pandemia non sarà quello di prima. E più velocemente i giocatori se ne faranno una ragione, meglio sarà per tutti. Il circuito non potrà garantire lo stesso numero di tornei, gli sponsor non potranno garantire gli stessi investimenti, il pubblico non sarà (numericamente) quello di una volta. In una fase iniziale, laddove comunque ci sarà gente (come, pare, sarà a Roma e a Parigi), gli accessi saranno limitati per garantire il distanziamento sociale; in seguito, se e quando ci libereremo completamente dalla paura del contagio, bisognerà capire quanti soldi saranno rimasti in tasca agli appassionati per comprarsi i biglietti di un evento del Tour. Probabilmente, a tutto questo, qualche top 10 non ci ha mai pensato, ma anche il più egoista del gruppo sarà costretto a farsi un esame di coscienza prima di continuare ad avanzare richieste come quelle emerse nella videocall che ha coinvolto i vertici dell’Atp e circa 400 giocatori. La più incredibile? Aumentare (sì, aumentare!) il montepremi degli Us Open per ‘risarcire’ (?) i giocatori dell’impossibilità – peraltro poi rientrata – di recarsi a New York col proprio personal trainer.
Verso l’impopolarità
Di queste follie – perché non c’è parola migliore per definirle – se ne dovrà fare a meno, in futuro. Altrimenti la pena non sarà solo un continuo lottare tra governi, giocatori e tornei, ma anche una perdita di popolarità non indifferente dell’intero movimento. Cosa che peraltro già si avverte: la gente afflitta dalla perdita del lavoro e da situazioni familiari angoscianti non può accettare (giustamente) le lamentele di un’élite viziata. I tennisti sono sempre stati considerati molto meno viziati di calciatori e altri sportivi. Adesso – mentre peraltro molti giocatori di squadre blasonate delle leghe pallonare di tutto il mondo hanno accettato tagli di stipendio senza fare una piega – sarebbe il caso di dimostrarlo. Basterebbe qualche dato dell’economia cosiddetta ‘reale’, per riportare alla realtà chi si ostina a vivere in una bolla. Basterebbe dire che la Usta ha licenziato 130 dipendenti e aveva in programma altri tagli, se non fosse riuscita a dare vita agli Us Open. Basterebbe parlare di tutto l’indotto che ruota attorno al tennis, che non è solo quello di coach e personal trainer, ma pure quello di coloro che per dodici mesi lavorano alla buona riuscita di un torneo del Tour.
La lotta dei Challenger e degli Itf
A proposito di tornei del Tour, è ovvio che a soffrire saranno soprattutto i piccoli. Dunque i Challenger e gli Itf, che dovranno capire se i loro sponsor reggeranno l’urto della pandemia o saranno costretti ad alzare bandiera bianca. Anche in questa categoria, probabilmente, assisteremo a una riduzione del numero degli eventi in calendario e a una riduzione dei montepremi. Ci si augura di no, ma la direzione sembra questa. La pandemia potrebbe (dovrebbe?) essere allora l’occasione per creare un circuito meno ricco, ma allo stesso modo meno iniquo. Un circuito dove non ci sia chi guadagna (di soli montepremi) 15 milioni di dollari a stagione e chi fatica ad arrivare a fine mese. Ecco per cosa si dovrebbe lottare – tutti, nessuno escluso – nel nuovo mondo: un tennis che dia maggiori garanzie a chi prima non ne aveva, che tolga quei privilegi antichi a pochissimi eletti e produca un meccanismo in grado di generare non tanto ricchezza, ma almeno una vita dignitosa, a qualcosa in più di centocinquanta giocatori.