Il profumo della pallina non lo avevo mai sentito così forte, così nitido. Uno smash ha fatto volare quella meravigliosa sferetta gialla fin quassù, in cima a una tribuna dove mi hanno messo gli addetti (mai così gentili), ben al riparo dagli altri spettatori, che io non sono immune e dunque non posso stare dove si siedono gli altri. Istintivamente, quella palla che svolazzava nell’aria l’ho presa al volo. Dunque adesso me la posso pure tenere, perché i giocatori non la userebbero più.
Mi abbasso la mascherina quel tanto che basta, la avvicino al naso come se fosse un frutto, ne voglio cogliere il profumo, quello che tanto mi era mancato in questi mesi di clausura. Laggiù, qualche metro più in basso, i giocatori se le danno di santa ragione. È un primo turno anonimo, in un’altra stagione non lo avrebbero degnato del Campo Centrale. Ma questa è la partita del secolo. No, di più, del Millennio.
È la prima partita di tennis dopo che il mondo si è riaggiustato, e nessuno se la vuole perdere. Loro, i giocatori, non hanno colore, non hanno nazionalità. Sono due supereroi, per tutti. Si scambiano colpi pesanti ma si divertono, perché quel match che mette in palio punti e denaro è – anche per loro – prima di tutto una festa. Sembrano fratelli minori di Mansour Bahrami: non lasciano nulla di intentato ma ogni tre colpi producono un paio di giochi di prestigio. Proprio loro che erano stati così quadrati, nella loro vita precedente.
Il silenzio e la musica
Lo avete mai ascoltato per davvero il suono, il suono non il rumore, che fa la pallina quando la colpiscono certi professionisti? Il suono di uno scambio è una melodia, qualcosa che incanterebbe il mio gatto più di un brano di Bach. No, non è ‘pof pof’, quella è roba d’altri tempi. Qui è qualcosa che riprodurlo con un’onomatopea non si può proprio. E non si deve. Ogni volta che i giocatori colpiscono, dal profondo della mia spina dorsale parte una specie di lampo che mi avvolge, un piacere che non si può spiegare.
C’è un silenzio surreale, persino oltre le regole più ferree dello spettatore più corretto. Sapete perché? Perché quel suono che noi guardoni del tennis conosciamo, se lo vogliono godere tutti, fino in fondo. Senza macchie, senza filtri. Le attese non esistono più. Ricordate quando, nell’epoca passata, tra un punto e l’altro sbirciavamo il cellulare? Non si fa più, quell’attesa di 25 secondi non esiste, sparita dentro ai mesi infiniti di quarantena.
Il tempo, del resto, è un concetto relativo, si può ampliare e contrarre come una fisarmonica. Adesso il tempo è così cambiato che 25 secondi sono un battito di ciglia. E i primi game? Nessuno pensa più che non valga la pena vederli. Tutto vale la pena. Vale la pena anche vedere un cambio di campo, osservare cosa fanno i giocatori sulle loro sedie, cercare di scrutare i loro occhi e capirne le intenzioni.
La terra addosso
Al più, la distrazione che prende qualcuno è la terra. Sì, guardare i granelli di terra battuta che volano sul campo quando vengono aggrediti dalle scarpe già rosse di quei due forsennati. La terra battuta è quella del nostro primo scambio, quella del nostro approccio col tennis, di quando solo calpestarla ci provocava un brivido. Lì, in quel momento preciso, il brivido passa persino dallo sguardo. La terra battuta è un’invenzione meravigliosa, è perfetta per metterci sopra due giocatori e lasciarli a trenta metri di distanza a colpire una pallina gialla. Sì, la terra è perfetta.
Quando si alza un po’ di vento finisce che ci vola negli occhi, e l’istinto una volta era quello di ripararsi, di proteggerci con una mano. Adesso quel vento sembra la mano del Signore e la terra la lasciamo entrare nella nostra sfera personale, quella a cui ancora le persone non possono avvicinarsi. Nemmeno il vento, a quei due, oggi dà fastidio. Una volta era il nemico giurato dei tennisti, ora diventa un compagno di giochi, idea per nuovi colpi che strappano un applauso.
Rivedremo tutto
I ricordi si aggrovigliano. Quanto tempo fa, qui, abbiamo visto quella partita che ci è rimasta nel cuore? Difficile dirlo, perché dall’ultima volta sembra passato un secolo, non qualche mese. Siamo diversi, tutti. Siamo diversi noi che guardiamo e loro che giocano, ma in fondo siamo migliori. O, per usare parole più corrette, siamo più consapevoli del nostro presente. Su una palla break non c’è nessuna tensione, si gioca a braccio sciolto come sull’uno pari e quindici pari.
Sul set-point si fa attenzione, ma poi la voglia di stupire prende il sopravvento: la palla danza sul nastro, poi resta dalla parte sbagliata. Quel ragazzo che in tempi normali avrebbe montato una smorfia di profonda delusione si apre in un sorriso, si prende la sua racchetta che ha lanciato per aria come un fuoco d’artificio e si incammina verso la sua panchina come se quel set lo avesse vinto invece che no.
Sì, da quando il mondo si è riaggiustato non siamo più gli stessi, e del resto non poteva che essere così. Questo torneo lo abbiamo visto nascere così velocemente, senza burocrazia e senza tanti preamboli. Lo abbiamo visto nascere dalla sete di tennis cresciuta in giorni passati a setacciare YouTube alla ricerca di qualche partita di cui non ricordavamo il risultato, fino al punto in cui ci siamo messi l’anima in pace e abbiamo atteso in silenzio questo qualcosa di nuovo che adesso è sotto ai nostri occhi.
Di questo torneo amiamo tutto e nulla ci pare sia importante sapere, al di là del fatto di essere lì ed essere vivi. Non la superficie, non il montepremi, non i punti in palio e no, nemmeno i protagonisti. Rivedremo anche Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic, li rivedremo presto. Ma nemmeno loro saranno così fondamentali come erano prima, nella nostra vita di pubblico.
Siamo sempre stati abituati a essere cauti col tifo, a non farci prendere la mano dalla simpatia per Tizio o per Caio. Siamo il pubblico del tennis e adesso siamo una folla distante ma unita di gente che vuole solo ascoltare quella melodia di colpi e silenzi, come i tasti neri e i tasti bianchi di un pianoforte.
Siamo tennisti
Ma siamo anche tennisti, oltre che pubblico. Siamo quelli che adesso, mentre lasciano le tribune ordinati e rispettosi come non lo siamo stati mai, sperimentano il silenzio di coloro che hanno assistito a un miracolo e vogliono rivederlo nella loro testa ancora e ancora. Per poi mettere in pratica qualche spunto donato dai pro nella partita che torneremo a fare di domenica mattina.
Perché ci sono stati momenti, nei mesi di quarantena, in cui il dubbio se quel mondo tutto rotto si sarebbe riaggiustato in tempo per farci di nuovo felici lo abbiamo avuto. Eccome se lo abbiamo avuto. Stavamo esagerando, certo, ma anche il dolore, il dubbio e la solitudine sono elementi soggettivi. Non sono grandi uguali per tutti. Adesso che esploriamo di nuovo quei momenti, che sentiamo l’aria venirci incontro mentre da lontano ascoltiamo gli ultimi applausi destinati a chi lascia quel campo d’argilla, sappiamo con certezza granitica che il tennis sarà ancora parte della nostra vita.
Un ruolo, quello dello sport, che diventerà forse ancor più fondamentale che in passato. Passare del tempo in campo, sulle tribune, davanti alla tv, per ascoltare quella melodia di colpi perfetti, sarà più bello e noi saremo più consapevoli di quel valore che – colpevolmente o inevitabilmente – non avevamo saputo trovare in tempo di pace. La partita del secolo è finita. La nostra vita ricomincia.